Scatolette

 

 

 

 

 

            La segretaria era finita a gambe all’aria, due pile di grossi libri erano cadute sul pavimento e poco ci mancava che il sergente Rasi non scardinasse pure la porta. Entrò come una furia nell’ufficio del Generale, urlando alcune frasi incomprensibili.

            “Come vi permettete?”, gridò Agostini.

            Il Sergente era ormai esausto. Prese una sedia e si accomodò senza neanche chiedere il permesso.

“E’… è la fine, signor Generale!”

Riprese fiato e poi continuò:

“Siamo stati clamorosamente sconfitti!”

“Cooosa?”

“Il 14° plotone si è arreso senza condizioni.”

Il Generale lo guardò con aria incredula, portandosi le mani alla testa.

“Come è possibile? Era il plotone meglio addestrato! Che cosa hanno inventato questa volta?”

“Credevamo di averli in pugno… si erano presentati disarmati…”

“Disarmati? Vi siete fatti infinocchiare da quattro disarmati?”

“Beh… avevano solo delle scatolette, grosse quanto una mela…”

“Ah! Lo sapevo!”, fece Agostini. “Hanno un’arma segreta!”

“Ma… comunque”, continuò il Generale, “cosa possono fare delle scatolette contro i vostri mitra-laser?”

“Molto”, asserì il Sergente, “specie se da ognuna tirano fuori un carro armato.”

 

 

                                                           (2)

 

L’ispettore capo dell’E.A. (European Army) aveva imposto a tutti i giornali e quotidiani il più assoluto riserbo: c’era stata un’esercitazione militare e l’opinione pubblica non doveva essere messa al corrente di eventuali innovazioni tecnologico militari.

La cosa più buffa era che il mio giornale non sapeva proprio nulla di tutto ciò. L’unica cosa che era trapelata era una specie di messaggio segreto, probabilmente un nome in codice che nessuno sapeva interpretare: scatolette.

In ogni caso, se prima non avevamo modo o motivo di sospettare, ora eravamo certi che ci fosse qualcosa di grosso in mezzo. Cosicché mi fu affidato l'incarico di curiosare in giro e la cosa mi divertiva molto.

Mi recai all’E.A. di Roma, dove, dopo aver riempito tre moduli per il visto d’ingresso, attraversato qualche miglio di corridoi, ottenuto permessi e burocrazia italiana varia, fui finalmente ricevuto dal generale Agostini.

Il salottino d’ingresso era arredato graziosamente, se non fosse per quella segretaria dal naso grosso e gli occhi spiritati.

“Si accomodi, signor Brand.”, mi disse.

Aprii la porta ed entrai nella stanza. Il Generale stava comodamente seduto sulla sua poltrona. Il suo volto era gioviale e sorridente. Lunghe basette gli scendevano fin quasi le guance, alla maniera dei Lord scozzesi.

Corrugò la fronte accennando ad alzarsi, ma poi preferì restare incollato alla sedia. Nonostante tutto, pensai, aveva un’aria innocua.

“Per quale giornale lavora, signor Brand?”

“Per il Nueve Chant di Bruxelles.”, risposi.

“Si occupa forse di musica?”, chiese ironico.

“Beh, ultimamente rompo le scatole qua e là… o dovrei forse dire scatolette?” (Non volevo assolutamente perdere tempo in preamboli.)

Agostini sorrise. Prese alcuni fogli dal primo cassetto della sua scrivania.

“Poteva risparmiarsi il viaggio.”, asserì laconico. “Questo comunicato sarà consegnato alla stampa fra qualche giorno.”

“Posso?”

Mi passo in mano il foglio ed io detti una rapida occhiata.

“Uhm, vedo… E così, le scatolette sono una nuova invenzione”, dissi, “merito di questo tale… un certo professor Picus!”

“Proprio così.”

“E dove posso trovarlo?”

Il Generale mi guardò come se gli avessi chiesto la luna.

“Ha un laboratorio nei pressi di Modena. E’ un tipo stravagante, considerato da molti un mezzo pazzo.”

“E queste scatolette… cosa sono?”

Quasi scoppiò a ridere.

“Non posso dirle più di quanto sia scritto nel comunicato… Posso solo aggiungere che, a causa loro, la mi squadra ha perduto la medaglia nelle ultime esercitazioni!”

Mi accompagnò verso la porta.

“Mi dia retta, lasci perdere!”

Accennai un saluto ed uscii dalla stanza. Volevo maledettamente saperne di più, e l’unica persona in grado di aiutarmi era quel certo professor Picus…

 

 

                                                           (3)

 

Ero riuscito a farmi dare l’indirizzo da un mio amico dell’E.A. di Roma. Dovevo fare più in fretta possibile, prima che qualche collega si interessasse al caso e mi rovinasse l’esclusiva.

La sua abitazione si trovava nella periferia di Carpi, a circa venti chilometri da Modena. Era un vecchio palazzo dall’aspetto austero, circondato da un esteso giardino fiorito.

Suonai il campanello. La porta si aprì da sola. Attesi qualche momento, poi entrai guardandomi attorno con curiosità.

Un anziano signore mi venne incontro sorridente:

“John Brand?”

“Esatto”, dissi meravigliato, “mi conoscete forse?”

“Il suo amico dell’E.A. mi ha informato questa mattina ed io gli ho risposto che ero ben lieto di ricevere un rappresentante della stampa! A proposito… sono Ernest Picus!”, mi strinse calorosamente la mano.

Guardai con maggiore attenzione il volto del Professore. Era proprio come lo avevo immaginato: capelli folti e disordinati alla Einstein, occhi incavati fortemente espressivi, una canuta barbetta in ottime condizioni con pizzetto stile scienziato pazzo.

Arrivai subito al punto.

“Sarei interessato alla sua invenzione chiamata scatolette!”

“Ne sono lieto. E’ ora che tutto il mondo conosca le loro particolari proprietà.”

Si diresse verso un ampio salone.

“La prego, si accomodi!”, mi fece.

Entrai, incuriosito dalla variopinta illuminazione e da una serie di strani apparecchi che vi si trovavano.

“Oh, non ci faccia caso”, esclamò Picus, “sono solo alcuni oggetti cui sto lavorando!”

Si fermò davanti ad una grossa vasca colma d’acqua.

“Questa, ad esempio, è la cosiddetta Acqua Asciutta.”

“Sta scherzando?”, chiesi divertito.

“Neanche per sogno!” Prese un recipiente e lo riempì fino all’orlo. Dopodiché vi introdusse alcuni fogli di carta, immergendoli e lasciandoveli per svariati minuti.

Quando li tirò fuori erano perfettamente asciutti, come se l’acqua vi fosse scivolata sopra.

“E’ formata da molecole giganti”, spiegò Picus, “non riescono a penetrare nella materia e, quindi, non bagnano! Può essere molto utile in alcune circostanze.”

Rimasi sorpreso ed incuriosito da quanto avevo visto.

Più avanti, il Professore si fermò di fronte ad una strana bottiglia che sembrava avere un tappo a pressione molto voluminoso.

“Questa è una bibita multisapore. Promette delle notevoli applicazioni in campo culinario.” “Di che cosa si tratta?”, chiesi.

“Questa sostanza di mia invenzione, incolore e insapore, viene filtrata e modificata a livello molecolare. Per cambiarne il sapore basta ruotare questa leva!”, disse versandone un po’ in due bicchieri diversi.

“Nel primo bicchiere ho versato della Coca Cola e nel secondo del Rhum.”

Sorseggiai un po’ di quel liquido da entrambi i bicchieri.

“Incredibile, due sapori diversi dalla stessa bottiglia.”, esclamai.

“Dodici sapori diversi, per l’esattezza, ma potrei inserirne molti di più.”

Intanto Picus si era avvicinato ad una sedia.

Sembrava una normale sedia, ma con Picus era ragionevole non fidarsi.

“Si vuole mettere seduto?”

“Come funziona?”, chiesi.

Il Professore scoppiò a ridere.

“E’ una volgarissima sedia come tutte le altre. Volevo soltanto che si mettesse comodo, mentre le mostravo le mie scatolette!”

Tirai un sospiro di sollievo e mi accomodai.

Davanti a me c’erano tre scatolette di diverse dimensioni. Il Professore prese in mano la più piccola: era un cubo del lato di appena un centimetro!

Come per magia inserì la sua intera mano nella scatola e ne tirò fuori un grosso soprammobile. Come se non bastasse infilò ancora la mano e portò fuori alcuni libri, una mazza da golf e un radioregistratore!

Rimasi sbalordito.

“Come… come è possibile?”, balbettai.

Il professor Picus sorrise.

“Ora le spiego.”, appoggiò delicatamente la scatoletta sul tavolo. “Ognuna di queste scatolette è un contenitore di dimensioni ridottissime. Come ha già visto, si può arrivare ad un solo centimetro di lato! Esse sono in grado di contenere anche tonnellate di materiale, senza che ciò influisca minimamente sul loro peso: pochi grammi quando sono vuote e pochi grammi quando sono piene!

E’ iniziato tutto con lo studio della cosiddetta Algebra Riduttiva. E’ una scienza matematica che è basata sui seguenti principi fondamentali:

 

                                   1 + 1 = 3    e   1 x 1 = 3/2

 

Partendo da questi presupposti, che possono sembrare assurdi agli occhi dell’uomo comune, si può rifondare tutta una nuova geometria, un nuovo spazio cartesiano in cui, però, alcuni numeri vengono saltati."

“Vuol dire che alcuni numeri restano fuori e non sono utilizzati?”

“Certamente. Ad esempio il numero due non è dato dalla somma di alcun altro numero intero e ciò crea spazio vuoto.”

“E lei ha utilizzato questo vuoto?”

“Sicuro! Ho applicato l’Algebra Riduttiva ai fenomeni fisici, creando dei nuovi componenti elettroimmaginari, nel senso che funzionano formando dello spazio concentrato che io ho utilizzato come dispensa!”

“Quindi”, feci io, “si può mettere un carro armato in una scatoletta grossa quanto un pugno.”

“Sì, è possibile.”

“Di che materiale è fatta la scatoletta? Dovrà essere molto resistente, immagino.”

“Nient’affatto.”, rispose il Professore, “Ho utilizzato cartone riciclato! Esso serve soltanto per separare i due tipi di spazio che, altrimenti in contatto, risulterebbero poco maneggevoli.”

“Cosa succederebbe se gli dessi una martellata?”

“Assolutamente niente! Lo spazio interno è concentrato e perciò non può subire deformazioni di alcun genere.”

“Come è possibile, allora, far entrare gli oggetti nella scatola?”

“Una delle sei facce del cubo è la porta d’ingresso, la regione in cui i due spazi diventano uno solo. Avvicinando un oggetto, esso viene come risucchiato dallo spazio interno che ne modifica le dimensioni, per cui anche qualcosa di molto grosso come un tavolo o un mobile…”

“O un carro armato…”, aggiunsi.

“… certo, anche un carro armato può entrare in una scatoletta dalle dimensioni ridottissime.”

“Quanto spazio c’è all’interno di una scatola?”, chiesi.

“Beh, il rapporto di riduzione di ogni singola dimensione è di circa cento a uno.”

“Ciò vuol dire che un cubo di lato un centimetro è in grado di ospitare un volume di oggetti di un metro cubo…”

“Certamente. Ma ne ho di più grandi: quest’altra scatola, di dimensioni cinque per cinque centimetri, può contenere ben centoventicinque metri cubi di oggetti. E così via.”

“E’ incredibile!”, esclamai.

“Già”, sorrise il Professore, “le applicazioni sono molte e disparate!”

Pensai dentro di me ad una eventuale applicazione bellica: un’intera flotta poteva essere tranquillamente portata sul territorio nemico all’interno del portabagagli di un’auto! Oppure un’intera base militare nascosta in pochi metri quadri di terreno. Avrebbe certamente rivoluzionato le strategie militari del prossimo secolo!

“E’ al corrente dell’uso che sarà fatto della sua invenzione?”, chiesi.

“Senta, signor Brand. Io ho inventato una grossa dispensa. Dipende poi dall’uomo decidere se metterci missili oppure ortaggi.”

“Ha perfettamente ragione.”, ammisi. “Quali potrebbero essere gli usi civili più immediati?”

“Tanto per cominciare si avranno frigoriferi e armadi meno ingombranti.”, sorrise. “Poi, i trasporti saranno enormemente facilitati: non dimentichi che una scatoletta continuerà a pesare pochi grammi anche se riempita di piombo fino all’orlo! Potremo risolvere molti degli attuali problemi di spazio.”

“Giusto! Aiuterebbero lo smaltimento dei rifiuti!”

In quel momento squillò il telefono. Il Professore andò a rispondere. Vidi il suo viso accigliarsi un poco, come se fosse preoccupato.

“Quando riattaccò mi avvicinai e gli chiesi incuriosito:

“E’ successo qualcosa?”

“Devo partire subito per Roma”. Poi aggiunse lentamente:

“Due uomini sono rimasti intrappolati in una scatoletta.”

 

 

                                                           (4)

 

Devo proprio ringraziare il cielo di essere stato presente quando è giunta quella telefonata, o non avrei certamente convinto il Professore a portarmi con sé.

La situazione mi eccitava molto. Pensavo già ad alcuni favolosi titoli per la prima pagina del mio giornale.

Non appena fummo arrivati, un gruppo di militari ci scortò all’interno della sede italiana dell’E.A. fino ai pressi di un gigantesco laboratorio.

Alcuni uomini ci vennero incontro. Riconobbi dalle cronache giornalistiche il generale Poitiers. E’ impossibile dimenticare quegli assurdi baffoni spioventi, quel taglio di capelli alla Hitler e soprattutto il suo ghigno satanico.

Mi squadrò in un attimo con un’aria di sufficienza, poi riconobbe il Professore.

“La stavamo aspettando, professor Picus.”, disse Poitiers.

“Le presento il signor Brand della stampa estera.”, fece Picus.

“Non è gradita la presenza di giornalisti.”, asserì con voce altisonante.

“Mi sarà d’aiuto.”, spiegò il Professore.

“Quand’è così, si accomodino pure.”

Sapevo di non essere simpatico al Generale. Così, cercai di aggraziarmelo con un sorriso (Qualche volta funziona.).

Fummo condotti all’interno di un ampio salone. Una quindicina di persone, fra tecnici e scienziati, stavano accalcati attorno ad una scatoletta, discutendo ad alta voce.

Quando videro il Professore smisero improvvisamente di parlare e un tizio ci venne incontro dicendo:

“Sono Guido Luciani, addetto allo Sviluppo delle Applicazioni Pratiche delle scatolette.”

“Che cosa è successo?”, chiese Picus.

“Due nostri tecnici sono rimasti imprigionati all’interno di una di esse!”

“Chi ha dato loro il permesso di entrare? Non sono ancora stati fatti gli esperimenti con le persone.”

“Volevamo studiare lo spazio interno concentrato, ma qualcosa si deve essere bloccato e nulla può entrare o uscire dalla scatoletta!”

“Possiamo comunicare con loro?”, chiesi.

“Certo che no”, rispose Picus, “i segnali, qualunque sia la loro natura, non possono attraversare la barriera tra i due spazi. E’ davvero un bel guaio!”

“Bisognerebbe praticare un’altra apertura.”

“Impossibile! Sono regolate da alcuni componenti elettroimmaginari. Probabilmente si è rotta una scheda…”, spiegò Picus.

“Non si può sostituirla?”

“Certamente, ma dovremmo anche farla entrare e non si può perché è tutto bloccato!”

Il Professore si dimenava cercando una soluzione che sembrava non esistere. Io avrei voluto rendermi utile in qualche maniera, anche se le mie conoscenze scientifiche erano poche e lacunose.

“Se non ci sbrighiamo, quei poveretti moriranno soffocati!”, osservai.

“Certo che no, il…”

Il professor Picus si fermò un attimo, come se si fosse ricordato di qualcosa.

“Cosa c’è?”, chiesi.

“A dire il vero esiste un’altra apertura…”

Tutti i presenti guardarono verso di lui.

“Ma temo che non ci sia di alcuna utilità!”

“Spiegatevi meglio!”, fece Luciani.

“Quando progettai le scatolette”, disse Picus, “pensai che un ambiente ermeticamente chiuso non sarebbe stato molto idoneo all’uso di dispensa. Così, aggiunsi una presa d’aria…”

“Non potremmo utilizzarla per fornire ai due prigionieri il pezzo di ricambio?”

“Temo di no. La scheda di cui hanno bisogno ha le dimensioni di una cartella, mentre quel foro è di appena due o tre centimetri..."

Nel laboratorio si formò di nuovo il silenzio. Sembrava che non ci fosse una via d’uscita e che quei tecnici fossero destinati a rimanere intrappolati per sempre.

Pensai che in tutta questa storia c’era qualcosa che non quadrava: c’era bisogno di spazio… Certo! Il professor Picus aveva appena risolto ogni problema con l’ausilio della scatolette…

All’improvviso ebbi un lampo di genio! (Modestamente…)

“Io so come far uscire quegli uomini!”, dissi.

“Suvvia, non scherzate”, fece Luciani, “cosa può saperne lei?”

“Credo di vedere lucidamente la questione, proprio perché estraneo all’ambiente.”

Il professor Picus mi guardò incuriosito.

“Continui.”, disse.

“Il problema consiste nel tirar fuori da una scatoletta, grossa quanto un pugno, due uomini. Ma il condotto dell’aria, unica via d’uscita disponibile, è largo due soli centimetri!”

“E allora?”, fece qualcuno.

“E’ troppo piccolo per degli esseri umani… e per il pezzo di ricambio… ma non per un’altra scatoletta!”

“Ha ragione!”, esclamò Picus. “Vada avanti!”

“Basterà inserire nella presa d’aria una seconda scatoletta funzionante, in modo che i due uomini possano introdurvisi ed essere estratti insieme ad essa!”

“E’ un’idea eccellente!”, esclamò Picus e si dette subito da fare per realizzarla.

I tecnici manovrarono strani congegni. Scandagliarono con dei raggi laser tutta la superficie della scatoletta incriminata, per trovare la presa d’aria.

Finalmente riuscirono a localizzarla. Era un foro microscopico nello spazio ordinario, che però sarebbe riuscito a contenere oggetti larghi fino a qualche centimetro, grazie alla concentrazione.

Utilizzando delle pseudo pinzette comandate dal computer, infilammo una seconda scatoletta nel foro e, in men che non si dica, fummo in grado di riportare i due uomini alla luce del sole.

Gli elogi e i complimenti nei miei confronti si sprecarono e, con grande gioia, mi vidi costretto a pubblicare la mia foto in prima pagina!