Avevano visto la sua sagoma da lontano, ma non avevano paura.
Procedevano lentamente, a bordo di una carrozza trainata da una coppia d'unicorni, uno bianco e l’altro nero con una chiazza più chiara sulla fronte. La strada era fiancheggiata da enormi querce, unico riparo nelle spoglie ed assolate terre del Regno di Dagobah.
Un uomo poderoso, tra la giovinezza e la mezza età, sedeva sul sedile anteriore con in mano le redini, aggrottando la fronte per meglio scorgere lo sconosciuto. Ogni tanto si sporgeva per accarezzare uno dei due unicorni, a turno, per non ingelosirli.
“Nils!”, gridò voltandosi indietro. “Vieni ad aiutarmi; ci fermiamo qui, per il momento!”
Il ragazzo scese dal carro dalla parte posteriore. Frattanto il padre, con una leggera pressione sulle redini, aveva ordinato alle bestie di fermarsi.
“Ci sono problemi, Gezun?”, chiese la donna che era rimasta seduta all’interno.
“No! Non ti preoccupare, cara.”, rispose l’uomo. “Non penso che abbia intenzioni ostili. Si sta avvicinando lentamente e credo che sia esausto!”
Lo sconosciuto avanzava davvero con estrema lentezza, cavalcando un magnifico daveron pezzato. La polvere sui suoi stivali si era accumulata per miglia e miglia nelle lontane terre dell’Ovest.
Era giunto ormai a pochi metri dalla carrozza e tre persone lo guardavano con curiosità.
Era alto, fortissimo e portava una lunga treccia bruna che gli scendeva sul dorso. Indossava una pelle di daino, robusta ed aderente, ricoperta di frange e alla cinta una lunga lama ricurva. Fece un gesto di amicizia.
“Il mio nome è Lomar e vengo da molto lontano.”
Gezun fece un passo avanti, secondo le antiche usanze.
“Benvenuto fra noi, Lomar. Possiamo offrirti del cibo?”
Il guerriero non se lo fece ripetere due volte, entrò nel carro ed accettò di buon grado un po’ di zuppa calda, carne essiccata e qualche sorso di uhngen invecchiato.
“Da dove vieni, straniero?”, chiese Gezun.
La sua lingua si sciolse magicamente e cominciò a raccontare la sua storia.
“Le mie terre si trovano al di là dei Monti del Sospiro, dopo le grandi pianure deserte, oltre le Terre dei Grandi Capi. Il mio popolo vive felice sulle colline, dedito alla raccolta dei frutti della terra e all’allevamento degli animali.”
“Avete molti daveron, dalle tue parti?”, chiese il piccolo Nils.
“Si, certo!”, rispose Lomar, “Nutrite mandrie di daveron pascolano liberi sulle nostre colline!"
“Oh, mamma! Ne voglio anch’io uno così”
La donna entrò all’interno, portando con sé le ciotole dove avrebbe versato la zuppa.
“Quando sarai grande, ti prometto che potrai averne un tuo.”
“Lasciatelo continuare!”, fece Gezun.
“Purtroppo… eravamo un popolo felice”, disse Lomar, “finché non venne il giorno di Ramesh, quando gli alberi fioriscono, in cui un maledetto mago decise di distruggere il nostro villaggio… per impadronirsi del Sacro Sigillo…”
“Non l’avete più ritrovato?”, chiese Gezun.
“Mi sono offerto di recuperarlo, ma finora ho miseramente fallito.”
Lomar sospirò.
“Riconoscerò ovunque i suoi capelli d’argento, le sue mani artigliate e gli occhi vitrei… mentre mia sorella, ancella del Tempio, moriva tra le fiamme malefiche da lui generate…”
Lomar terminò la sua zuppa, poi riprese a parlare.
“Mi hanno detto che quel mago è venuto alla corte di Dagobah… è lì che sono diretto!”
“Probabilmente ti hanno indicato bene, amico Lomar”, fece Gezun, “il re Sindy Gudyrie è circondato da una folta schiera di maghi che gli fanno da consiglieri. Dicono addirittura che ne scelga uno diverso ogni giorno per timore di essere tradito.”
L’uomo fece una smorfia di disapprovazione, poi continuò.
“Anch’io con la mia modesta famiglia sono diretto a Dagobah per l’abluzione nel fiume Sacro. Come saprai, è d’obbligo recarvisi almeno una volta l’anno ed immergersi nelle acque limpide del Leviathan per purificarci delle nostre colpe.
Ti sarei molto grato se volessi unirti a noi. Dagobah è una città così affollata e pericolosa… mi sentirei più tranquillo se viaggiassi con un guerriero di tal guisa.”
Lomar sorrise.
“Ti ringrazio ed accetto con piacere. E’ inutile percorrere due sentieri, se il cammino è lo stesso!”
Gezun si alzò con aria soddisfatta, scendendo dal carro, e si accinse a preparare gli unicorni per riprendere al più presto il viaggio.
“Hertha!”, chiamò.
“Sì, caro?”, rispose la donna.
“Ha accettato di accompagnarci.”
La donna si avvicinò senza mostrare il minimo segno di emozione.
“Bene! Lo dirò a Nils.”
Il carro riprese la via, cigolando sulla terra riarsa.
La strada proseguiva verso est, perdendosi dietro le colline.
Lomar era di nuovo in groppa al suo splendido daveron e precedeva di poco gli altri.
L’unico che non sembrava trovare pace era il piccolo Nils; si dimenava, scendeva dal carro per raccogliere qualche sasso luccicante, volle persino cavalcare il daveron, nonostante le madre lo avesse più volte sconsigliato.
Finalmente giunsero nei pressi di Dagobah.
Lomar, in avanscoperta, poteva ammirare la città in tutto il suo splendore, dall’alto di un colle che scopriva l’intera vallata di Keophest.
Era davvero imponente!
Le alte mura cingevano le abitazioni per un perimetro di diversi chilometri. Quattro alte torri rappresentavano i punti cardinali ed al centro spiccava la grandiosa cupola del Mujafet, simbolo del potere religioso che la città aveva esercitato negli ultimi due secoli.
Era, inoltre, ben visibile il Palazzo Reale, arroccato su di un poggio e protetto da ulteriori e ben più alte mura. I suoi mattoni, ricoperti d’oro, scintillavano al sole accecando come astri; le sue torri bombate sovrastavano la città con un magico senso di sfida.
Dagobah era ricca ed invitante, ma anche spietata e crudele per i pellegrini più sprovveduti.
Lomar fu raggiunto dalla carrozza che gli si fermò accanto.
Gezun scese esclamando:
“Bella, eh?”
Il guerriero fece un cenno d’approvazione.
“Lo dicono tutti”, continuò Gezun, “pare che sia sorta dal nulla per l’incantesimo di qualche mago.”
“Tutti gli incantesimi dovrebbero essere rivolti al bene!”, ribatté Lomar. Poi non disse altro, ma dall’espressione triste del suo volto si capiva che si era abbandonato ad amari ricordi.
Guidò il carro fino alla Porta dei Mercanti, una delle quattro vie di accesso alla città. La fila di ambulanti, girovaghi e persone d’ogni razza e provenienza era molto lunga, ma non rimaneva che aspettare il turno.
All’improvviso un ragazzaccio sporco e malvestito si avvicinò a Lomar, accasciandosi ai suoi piedi.
“Che la Triade ti protegga, signore. Sarò il tuo schiavo, ma non lasciarmi fuori, questa notte!”
Il guerriero rimase perplesso.
“Alzati, ragazzo”, disse, “qual è il tuo problema?”
Intervenne Gezun.
“Le guardie Dagobiane sono molto severe con i mendicanti, non lo lasceranno certo entrare vedendolo in queste condizioni.”
“Potremo portarlo con noi!”, disse Lomar.
“Cero! Farà compagnia a Nils e noi diremo di avere due figli.”
Il ragazzo, che aveva sentito i discorsi, si affrettò a ringraziare.
“Sempre sia la Triade al vostro fianco, vi prometto che saprò sdebitarmi!”
Si affrettò ad entrare nel carro dove fece subito amicizia con Nils.
Finalmente era arrivato il loro turno. Le guardie ispezionarono a fondo: cercavano le spezie che sovente venivano introdotte in città senza i dazi dovuti, alimentando un mercato nero alquanto proficuo.
Dopo aver passato il controllo, pagato il pedaggio, si fermarono nella Piazza dei Pellegrini, insieme ad una folla numerosa, la maggior parte della quale veniva per le abluzioni annuali nel Leviathan.
Il piccolo mendicante si trovò così bene che decise di rimanere con loro: almeno finché erano disposti ad offrirgli un pasto caldo! Era un ragazzo sveglio e loquace, molto sicuro di sé, che non tardò ad accattivarsi la loro simpatia.
“Per la Triade! Certo che sono sicuro”, disse, “mi avrebbero lasciato fuori delle mura a gelare nella notte!”
Gli altri gli erano attorno, ascoltando le sue parole.
“Il mio nome è Fender e sono un grande mago!”, poi si corresse immediatamente, “beh… sarò un grande mago, un giorno…”
“Da dove vieni?”, chiese Nils.
“Da un sacco di posti diversi”, rispose Fender, “i miei genitori morirono che ero molto piccolo. Ho vissuto quale anno con uno zio mago e tiranno. Sono fuggito e, da allora, ho sempre girato il mondo, senza pericolo, grazie alla Triade!”
“Parlaci della Triade, sembra che tu ne sappia qualcosa!”, interruppe Gezun.
“Cos’è la Triade?”, fece Lomar.
Fender era al settimo cielo. Si sentiva al centro dell’attenzione.
“Un giorno anch’io diventerò mago e siederò alla destra della Triade per proteggere il Regno di Dagobah dall’usurpatore.”
“Ehi, ragazzo”, interruppe Gezun con aria di rimprovero, “abbassa la voce! Se qualcuno ci sente, potrebbero arrestarci!”
“Ha detto il vero?”, chiese Lomar.
“Si, la Triade è composta da tre potenti maghi che hanno unito le loro forze in un’unica ed invincibile entità. Essi ci proteggono dal male e dalle ingiustizie. Noi crediamo in loro.”
Fender riprese a parlare.
“Le profezie dicono che un giorno torneranno a Dagobah riprendendo il trono che spetta loro di diritto. Io sarò al loro fianco, per questo sono venuto qui. Nel frattempo dovrò cercare di diventare un vero mago, ma è solo questione di esercizio!”
“Il ragazzo sembra sapere il fatto suo!”, osservò Lomar.
“Perché non ci fai vedere qualche incantesimo?”, chiese Nils.
Fender annuì, concentrandosi intensamente. Stava fissando il centro di un cassettone, dove giaceva la brocca dell’acqua. Improvvisamente la brocca mutò colore… si stava come schiarendo… emanava un’intensa luce rossastra. I presenti ebbero un attimo di sbigottimento, poi tutto tornò normale.
Il più meravigliato sembrava lo stesso Fender, che rimase per un bel po’ a bocca aperta.
“E’… è successo davvero?”, chiese.
“Sei stato bravissimo!”, esclamò Nils e gli altri unirono i loro complimenti.
“Non mi era mai riuscito così bene!”, esclamo balbettante il ragazzo.
“Si vede che stai migliorando!”, lo incoraggiò Gezun. “Esercitati ancora, questi sono i primi rudimenti per chi vuol diventare un buon mago.”
“Lo farò, signore!”, disse esultante Fender ed uscì di corsa dal carro per andare a provare ancora.
“Domani sarà un grande giorno!”, disse Gezun.
Lomar sorrise.
“E’ davvero una cerimonia così importante, quella dell’abluzione?”
“Fondamentale, direi!”, corresse l’altro. “Quasi tutti sono qui per questo motivo. Secondo la nostra religione le acque del Leviathan devono purificarci almeno una volta all’anno. Se non altro, è questione di rispetto per la Triade che ci guida e ci protegge.”
Hertha rientrò dopo aver sbrigato alcune faccende.
“Domani è il giorno della rinascita, l’inizio di una nuova vita ed un buon auspicio per qualunque attività”, disse e poi aggiunse con un ampio e materno sorriso:
“Sarete stanchi! Fareste meglio a riposare. Vado a chiamare i ragazzi.”
Al chiarore delle stelle si mesceva quello dei fuochi accesi all’aperto, mentre la gente ancora parlava, pregava, aspettando trepidamente l’alba.
(2)
Attorno al Mujafet si era radunata una folla numerosa, in religioso silenzio. Il Gran Sacerdote alzò le braccia verso l’alto, poi si chinò nella posizione del Rufekshti. Gli altri lo imitarono.
Si levò nell’aria un suono cupo e lamentoso. I fedeli risposero a quel richiamo con un brusio sommesso. La preghiera di protrasse a lungo, finché il Gran Sacerdote non diede il via alla cerimonia.
Alte grida risuonarono nell’aria, mentre si dava inizio alle danze in onore della Triade. La confusione assunse ben presto grosse proporzioni. Si era formato un lungo corteo che, dalla Piazza dei Miracoli, tentava di raggiungere il Leviathan attraverso le intricate vie della città.
Lomar non riusciva più a trovare i suoi amici, disorientato da quella bolgia. Era abituato alle foreste, agli sterminati prati e alle selvagge praterie della sua terra. Non aveva mai visto prima d’ora così tanta gente ammassata gli uni sugli altri. Decise di seguire la scia.
Attraversarono quartieri eleganti, dove il lusso e la sfrenatezza dei proprietari sfuggiva ad ogni regola. Finalmente giunsero nella Piazza delle Sponde, la più grande di tutta Dagobah.
Era attraversata per tutta la sua lunghezza dal Leviathan che la divideva in due parti perfettamente uguali. In ognuna delle quattro direzioni si ammiravano le altissime Torri d’Argento, illuminate come specchi dal sole appena sorto.
La grande massa di persone occupava quasi interamente la parte destra della piazza, mentre quella sinistra rimaneva vuota. Si formarono dei lunghi corridoi e secondo le più antiche tradizioni, i vari cortei avrebbero marciato contemporaneamente verso l’acqua, immergendosi per poi risalire ed andare a riversarsi sull’altra sponda del fiume.
Gezun, Hertha ed i due ragazzi si stringevano gli uni con gli altri, attenti a non perdersi e scrutando tra i volti, ogni tanto, per rintracciare Lomar.
Il Gran Sacerdote era in procinto di dare il via. Egli avrebbe dovuto immergere per primo il suo piede nelle calde ed azzurre acque del Leviathan, quando accadde l’imprevisto.
Il fiume sembrò contorcersi sotto l’influenza di strane forze occulte. Le acque si intorbidirono rapidamente, per poi sparire sotto gli occhi allibiti dei presenti.
Il Leviathan era scomparso!
“Sei stato tu, Fender?”, chiese spiritosamente Nils al compagno.
“Non scherzare, adesso sì che siamo in un bel guaio!”
Il caos fu totale. La gente prese ad incolpare Sindy Gudyrie e la sua Corte dei Maghi del tragico evento. Orde scalmanate si riversarono sul Palazzo Reale, devastando ovunque passassero.
Le Guardie Dagobiane non tardarono a farsi sentire. Più di mille uomini armati tentarono di calmare la folla. Cinquecento persone andarono a rimpinguare le Prigioni Reali.
Erano trascorse diverse ore e Lomar stava ancora aspettando i suoi amici vicino alla carrozza. Era totalmente assorto nei suoi pensieri, quando vide uno strano bagliore provenire da poco lontano.
Era come una luce verdastra, localizzata in un punto ben preciso, a mezz’aria. Lentamente il bagliore si diffuse nella zona circostante, come fumo in un recipiente, andando a formare una specie di schermo dodecaedrico, tridimensionale.
“Ehi, Lomar! Mi sentì?”, furono le prime parole e contemporaneamente apparve il volto di Fender, sfuocato e tremolante.
Il guerriero fece un passo indietro, non riuscendo a comprendere cosa stesse succedendo.
“Sono io, Lomar! Sono Fender!”, ripeté la voce, “E’ una delle mie magie: non credevo che sarei riuscito a ripeterla a distanza.”
“Dove sei? Come stanno gli altri?”, chiese Lomar.
“Sono qui con me. Siamo nei guai: le Guardie Dagobiane ci hanno arrestati e sbattuti nella cella comune!”
Fender sospirò. Il suo volto tridimensionale spiccava al centro del fumoso schermo verde, poi riprese a parlare.
“Vedi di tirarci fuori, Lomar! Sei l’unico che può darci una mano!”
Lo schermo cominciava a perdere consistenza e le parole di Fender sembravano più lontane.
“Vi aiuterò”, disse il guerriero, “stanne pur certo!”
L’immagine era ormai scomparsa.
Lomar non si perdette d’animo e si diresse verso il Palazzo Reale, sperando di essere ricevuto dal Re in persona.
Non appena giunse dinnanzi al gigantesco Portale d’oro, accesso obbligato per chi volesse recarsi all’interno, due guardie gli si fecero avanti, intimandogli l’arresto immediato.
Si presentò con voce altisonante.
“Il guerriero Lomar dall’acciaio temibile, prode dei Cavalieri delle Colline, chiede di essere ammesso alla presenza di sua maestà quale ambasciatore delle Terre Alte.”
Le guardie sembravano non averlo ascoltato. Poi, quando Lomar provò ad aggiungere qualcosa, lo interruppero.
“Non dire altro. Il nostro Re ti sta osservando.”
“Ora?”, chiese il guerriero guardandosi attorno.
Le guardie annuirono. Dopodiché Lomar fu coperto da un misterioso alone che sembrava avvolgerlo tutto e la sua immagine si dissolse nell’aria, lasciando un acre odore di zolfo.
Si ritrovò in un ambiente fiabesco: gruppi di danzatrici improvvisavano dei passi al ritmo di una musica dolce e melodiosa, piante di ogni forma e dimensione profumavano l’aria delicatamente, mentre nuvolette bizzarre e coloratissime, come soffici fiocchi volanti, erano sospinte da una dolce brezza a pochi metri dal suolo.
Eppure si trovavano all’interno del Palazzo! Tutto ciò era sicuramente opera della Corte dei Maghi che erano alle dipendenze del Re. Esaudendo ogni suo minimo desiderio.
Un gruppo di servitori stava immobile attorno al grandioso trono in oro massiccio, alto sei metri e tempestato di pietre preziose.
Il Re era adagiato su di una nuvoletta arancione, soffice e densa, sospesa a mezz’aria come un piccolo terrazzo che sporgeva dal lussuoso macigno dorato. Parlò e le sue parole erano magicamente amplificate, perché risuonassero dappertutto con un effetto struggente di riverbero.
“Lo straniero si faccia avanti!”, disse.
Immediatamente i servi si scansarono, permettendo a Lomar di avanzare nella giusta direzione.
Il guerriero, per nulla intimorito, fece qualche passo avanti. I tacchi dei suoi stivali batterono sui freddi marmi della pavimentazione.
In quel momento comparve una figura alla destra di Sua Maestà. Lomar pensò che dovesse trattarsi del Mago Consigliere. Lo guardò in volto: non era lui che cercava. Del resto Gezun gli aveva confidato che ne cambiava uno al giorno.
“Cosa ti ha portato qui, straniero?”, disse ancora il Re.
“Quattro persone”, rispose Lomar, “che avete arrestato ingiustamente.”
Il Re lo guardò con aria di disprezzo.
“Avevi detto di essere ambasciatore. Sei dunque venuto con l’inganno?”, chiese ironico.
“Era l’unico modo per potervi parlare, maestà… io…”
Il Re lo interruppe.
“Non mi interessa quello che ha da dire, Lomar. Sarò esplicito.” Aspirò del fumo da una minuscola pipa volante. “Non appena ti ho visto, ho capito che sei un valoroso guerriero, forte ed intrepido, e ho deciso di arruolarti tra le mie Guardie Dagobiane.”
“E se rifiutassi?”, replicò Lomar.
“Ti potrei anche uccidere… sta a te la scelta.”
Lomar fece di no con la testa.
“Uh!”, esclamò il Re, “Hai più fegato di quanto immaginassi… hai osato rifiutare.”
Il Mago Consigliere intervenne.
“Posso fulminarlo anche subito.”
“Non avere fretta, Sheraz, divertiamoci un poco!”
“Come vuoi…”
Il Mago si concentrò sprigionando un’intensa luce giallastra. Improvvisamente si aprirono come delle immense finestre, che si affacciavano sulla città di Dagobah ad una altezza di cento e forse più metri. Il paesaggio era davvero stupendo: Lomar guardò con nostalgia verso ovest, verso le Terre dei Grandi Capi. Poi il suo sguardo si posò sulle polverose rive del Leviathan, completamente privo di acqua. Gruppi di fedeli pregavano all’aperto, come colpiti dalla più grave delle sciagure.
All’improvviso una grossa piattaforma sembrò sbucare dal nulla e andò a piazzarsi in bella vista, sospesa nel vuoto.
Immediatamente Lomar vi si materializzò sopra.
Il Re sembrava davvero gustarsi lo spettacolo, tanto rideva divertito. Poi, si rivolse a Sheraz:
“Fallo combattere… che so… con un mostro marino!”
Il Mago l’accontentò col semplice gesto della mano. Sulla piattaforma apparve un gigantesco mostro, dotato di due robuste ali, viscido e grosso come un delfino. Cominciò a volteggiare nell’aria come per prendervi confidenza, poi si scagliò ferocemente sul povero Lomar, che aveva estratto la sua spada ricurva.
Il mostro, nonostante la mole, era agilissimo e schivava i colpi del guerriero con la massima naturalezza. In aggiunta possedeva quattro file di denti aguzzi che tentava invano di affondare nelle carni dell’uomo.
Più di una volta Lomar perse l’equilibrio, correndo il rischio di precipitare nel vuoto. Lo spazio che aveva a disposizione era di pochi metri quadrati, mentre l’altro, essendo dotato di ali, poteva mettersi facilmente al riparo quando i colpi dell’avversario cominciavano a farsi pericolosi.
Per rendere il duello ancora più impari, il Mago pensò bene di inclinare la piattaforma di trenta gradi. Lomar cominciava ad essere stanco: riusciva a stento a rimanere in equilibrio ed era sempre meno prudente ai ripetuti attacchi del mostro.
Improvvisamente lo morse alla spalla, rimanendovi aggrappato. Accecato dal dolore, Lomar approfittò della vicinanza per recidere con un sol colpo l’ala sinistra del gigantesco volatile.
A quel punto il mostro mollò la presa, precipitando nel vuoto e schiantandosi al suolo. Lomar stordito, si lasciò sfuggire un sorriso.
Il Re sembrava essersi divertito ed espresse un mugolio di soddisfazione.
“Che ne facciamo?”, chiese Sheraz riportando il guerriero nella sala del trono.
Un campo di forze sconosciute teneva Lomar immobile come fosse legato, permettendogli di ascoltare silenziosamente le parole che venivano pronunciate.
“Vediamo…”, disse il perfido regnante, “è terminata la costruzione della Città delle Nuvole?”
“Stiamo completandola, Sua Maestà. Ancora poche ore e potremo mettervi piede.”
“Bene! Intanto tenetelo per qualche tempo nelle prigioni, assieme agli altri!”
“Sarà fatto, Sire.”, fece Sheraz e, con un rapido sguardo, fece scomparire per l’ennesima volta lo sfortunato Lomar.
(3)
Qualche fiaccola rischiarava i bui ed angusti meandri dei sotterranei del Palazzo Reale. Intere schiere di topi vi avevano fatto la propria dimora, rendendo invivibili quelle malsane caverne.
Eppure centinaia di prigionieri erano tenuti segregati nel più completo abbandono. Nessuno era mai riuscito a fuggire da quelle prigioni: se anche qualcuno fosse stato in grado di aprire le massicce inferriate che bloccavano le aperture, non avrebbe potuto eludere l’incantesimo che impediva di uscire dal Palazzo.
La maggior parte dei malcapitati giaceva sdraiata per terra, in mezzo al fango e ad un forte odore sgradevole.
Tutto ad un tratto, un accecante bagliore illuminò le pareti come se fosse giorno. Alcuni gridarono in preda al terrore.
In mezzo ad una nuvola di scintille, uscì il prode Lomar, con una mano sulla spalla ancora sanguinante e gli occhi vitrei per lo sforzo. Il guerriero cadde a terra stremato, mentre alcuni sguardi indiscreti lo spiavano da dietro gli spigoli.
Lomar sprofondò in un sonno pesante, di cui aveva necessariamente bisogno per recuperare tutte le sue forze.
Non seppe dire quanto tempo rimase in quello stato. L’unica cosa che ricordava era una mano delicata che gli accarezzava la fronte. Aprì gli occhi delicatamente e vide il volto di Hertha che giaceva accanto a lui.
Si scambiarono un rapido sorriso.
Non appena videro che si era ripreso, anche gli altri si avvicinarono.
“Gezun, Nils, Fender!”, esclamò Lomar, “Che piacere rivedervi!”
“Come di senti?”, chiese Nils.
“Un po’ ammaccato, ma per il resto sto bene!”, rispose.
“Temevamo per la tua vita.”, disse Gezun.
“Quel dannato Sindy Gudyrie è un genio del male!”, fece Fender.
“L’hai detto”, sospirò Lomar, “sta costruendo la Città delle Nuvole: ho sentito che lo diceva al Mago Consigliere. Come può essere in grado di farlo?”
“La Corte dei Magli è capace di questo e altro.”, disse Gezun.
Hertha, intanto, aveva riempito una scodella d’acqua e la porse a Lomar che bevve sorseggiando piano.
Il guerriero stava pensando alle nuvole che aveva visto scorrazzare per la Sala del Trono. Lo stesso Re era adagiato su di una nuvola.
“Fender”, chiese Lomar, “come si fa a creare una nuvola con la magia?”
“Ehi! Mi chiedi una cosa difficile!”, fece il ragazzo, “Neppure mio zio era in grado di farne una: oltre all’esatta formula magica, occorrono del sale di Nahr e un bel po’ d’acqua!”
“Acqua”, ripeté Lomar. “Certo, è chiaro!”, disse esultante.
Il guerriero posò la scodella, euforico.
“Ecco, dunque, a cosa serviva”, continuò, “hanno usato l’acqua del Leviathan per costruire la Città delle Nuvole!”
“A tanto è dunque arrivata l’arroganza della Corte dei Maghi!”, commentò Gezun colto dallo stupore.
“Come possiamo fermarli?”, chiese Nils.
“Dobbiamo scoprire cos’hanno in mente!”, disse Fender.
Una voce flebile ed impacciata si intromise nella loro discussione.
“Ascoltate!”
Era il vecchio Asmon, che da tanti anni abitava quei cunicoli bui e, senza più speranze, attendeva la sua prossima fine.
“Parla, vecchio. Ti ascoltiamo!”, disse Gezun.
L’uomo li stava fissando, come se fosse in procinto di svelare il più arcano tra i segreti.
“Mi rivolgo a voi”, disse, “perché il cuore mi assicura che userete le mie parole per il bene di Dagobah e della Sacra Triade… io so come poter leggere nella mente del perfido Gudyrie!”
Il vecchio tossì più volte, vittima dell’ambiente malsano e poco salubre.
“L’Occhio della Dea è qui tra noi!”, disse con voce debolissima per non essere udito.
Quelle parole non avevano significato per il prode Lomar; gli altri, invece, furono colti da un misto di meraviglia e di timore.
“Ne siete sicuro?”, chiese Gezun.
Il vecchio annuì debolmente, come se fosse allo stremo delle forze.
“Si trova nella più profonda caverna, protetto da terribili insetti velenosi. Fate molta attenzione!”, aggiunse.
Lomar chiese alcune spiegazioni a Gezun.
“Che cos’è l’Occhio della Dea?”
“E’ il potere della mente di vedere nel futuro”, disse Gezun, “è lo spirito delle cose visto dall’esterno, dal di fuori di esse; la Dea permette a pochi eletti di leggere nel suo cuore.”
“E la Dea ci darà il suo Occhio?”, fece Lomar.
“Magari!”, si intromise Fender, “Dovremo invece rubarlo!”
“Ora è Sindy Gudyrie il custode della Dea e non ci lascerà avvicinare facilmente!”, disse Gezun.
“Per prima cosa dobbiamo uscire da questa gabbia!”, fece Lomar impugnando la sua fedele lama ricurva.
“Forse Fender ci potrà essere d’aiuto con la sua magia!”, esclamò Nils.
“Non sarei così fiducioso sulle mie doti di mago, se fossi in voi.”, rispose titubante il ragazzo.
“Suvvia, non fare il modesto. Ci hai già dato delle eccellenti prove della tua dote.”, fece Lomar.
Si avvicinarono all’inferriata centrale, che dava su lunghi cunicoli che sembravano addentrarsi nelle viscere della terra.
“Perché non provi ad allargare queste sbarre?”, suggerì Gezun.
“State scherzando? Non mi è mai riuscito nemmeno con un cucchiaio!”
Viste le insistenze, il ragazzo si concentrò. Gli altri gli erano attorno in religioso silenzio.
Appoggiò le mani aggrappandosi sulle sbarre, in principio con fare delicato, poi quasi come se volesse strapparle. Il ferro cominciò ad arroventarsi: sprigionava un’intensa luce rossastra ed era un miracolo che le sue dita fossero ancora intatte.
Il metallo sembrò sciogliersi come burro, lasciando un largo passaggio per poter uscire. Il ragazzo si sedette, esausto per il forte stress mentale e fisico che aveva subito.
“Sei stato eccezionale!”, disse Lomar accingendosi ad uscire per primo. Gli altri lo seguirono.
Come tutti sapevano, era impossibile uscire dal Palazzo Reale a causa del forte incantesimo, ma nulla impediva loro di curiosare in giro finché non si fossero accorti della loro fuga.
Si stavano dirigendo verso le caverne più profonde, dove il vecchio Asmon li aveva diretti.
Giunsero, infine, in una immensa grotta. Al centro, si ergeva, imponente e bellissima, la statua della Dea dalle molte braccia. C’erano sei guardie a custodirla, ma non erano certo un problema per il forte Lomar. Quello che costituiva, invece, un serio pericolo, era il pavimento, invaso da una miriade di insetti velenosi.
Lomar si avvicinò titubante all’ingresso della caverna. Vide l’immagine della Dea, con il suo unico Occhio che scintillava sulla fronte come dotato di luce propria.
“Ci dirà quali orribili segreti nasconde il perfido Gudyrie.”, fece Gezun.
Lomar si fece avanti.
“Aspetta!”, lo fermò Fender, “La puntura di quegli insetti è mortale. Proverò a farti volare fin sulla statua!”
Il ragazzo si concentrò, mormorando fra sé:
“Forse mi sono montato la testa, ma ci devo riuscire lo stesso!”
Lomar fu preso da fili invisibili. Si vedevano raggi energetici uscire dalle dita del piccolo mago e pervadere l’aria.
Il guerriero fu immediatamente trasportato sul ventre della Dea. Non esitò nemmeno un secondo. Si arrampicò su, fino al collo, cercando di non scivolare sul marmo liscio. La statua era di una altezza impressionante, alzandosi per quasi venti metri da terra.
Giunto sulla sommità, si sporse per prendere il magico gioiello.
Lo tolse dalla cavità e lo mise nella sua bisaccia.
In quel momento tuonò la voce del Re.
“Maghi, a me! Cosa succede?”
Si udivano soltanto le sue parole.
“Svelto, Fender, fammi tornare!”, urlò Lomar.
Il ragazzo fece di nuovo sollevare il corpo del guerriero, ma quando questi si trovò a metà strada, improvvisamente Fender scomparve e Lomar precipitò in mezzo agli insetti.
“Fermo!”, urlò Gezun e dalle sue mani uscirono dei raggi violacei che portarono istantaneamente Lomar in salvo.
“Come… come hai potuto…”
“E’ tempo che tu sappia la verità.”, disse Hertha.
In quell’istante le sue mani si avvilupparono al corpo di Gezun ed insieme si amalgamarono a quello di Nils. Il nuovo essere era la superba fusione di tra Maghi, uniti nella lotta contro la malvagità.
“Noi siamo la Triade”, dissero Hertha-Gezun-Nils tra fumi e lampi, “ma la cosa più importante, ora, è che Gudyrie ha rapito il piccolo Fender!”
“Cosa possiamo fare?”, chiese Lomar.
“Tu hai rubato l’Occhio della Dea. Dovrà attendere mille anni prima di poterne avere un altro. Sei tu, ora, colui che ha il tempo e lo spazio nelle sue mani…”
Lomar prese l’Occhio. Emanava ancora luce. Lo esaminò e vide che al suo interno si stavano formando delle immagini.
Vide una grossa nube trasportata dal vento. Vide una favolosa città e Fender rinchiuso in un tetro maniero.
“L’hanno portato nella Città delle Nuvole!”
“Dovrai liberarlo tu stesso”, disse la Triade, “Noi non possiamo entrare negli incantesimi di altri maghi.”
“Sono pronto a tutto!”, disse Lomar.
“Non appena si è accorto della nostra presenza, Gudyrie ha pensato bene di ritirarsi nella sua Città, abbandonando il Palazzo e prendendo Fender come ostaggio.”
Come per incanto si ritrovarono all’aperto. La Triade continuò a parlare.
“Segui il tuo istinto, Lomar. La nostra magia ti accompagnerà ovunque.”
Detto questo, si formò nell’aria un gigantesco arcobaleno a spirale, che saliva verso l’alto raggiungendo una piccola nuvola occultata dal sole.
Lomar si armò di coraggio e cominciò a salire quei gradini fatti di luce.
Tutto il popolo di Dagobah, radunato nella grande Piazza delle Sponde, era presente alla scena. Lomar saliva rapidamente la spirale, perdendosi alla vista ed eclissandosi tra le nubi.
Giunto sulla sommità, trovò il Re a riceverlo.
“Salve!”, disse Gudyrie, “Dove credi di andare?”
“Lascia libero il piccolo Fender e avrai salva la vita.”, affermò il valoroso Lomar.
L’altro proruppe in una risata.
“Sheraz, elimina il pidocchio!”
Il Mago ubbidì e lanciò una violenta scarica magica sul guerriero.
Lomar la schivò con grande maestria, lanciando la sua lama ricurva sul petto del Mago Consigliere. Questi si accasciò in un lago di sangue.
“Maledetto!”, esclamò Sindy Gudyrie, “Ma non credere di aver vinto, la mia schiera di Maghi è in grado di sconfiggere chiunque!”
Immediatamente apparvero più di trecento maghi.
“In me vive la Sacra Triade!”, urlò Lomar tentando di scorgere senza esito il volto del Mago di cui era venuto alla ricerca, “Morte a coloro che vogliono fermare il mio cammino!”
Gli incantesimi sopraggiunsero in grande numero. Stormi di uccelli rapaci apparvero dal nulla per fermare il prode Lomar, ma rimanevano schiacciati dallo scudo protettivo o venivano squarciati dalla temibile spada ricurva, resa ancor più potente dalla magia della Triade.
Ad un tratto apparve una piccola nube scura, proprio sopra di lui, ad una altezza di qualche decina di metri. Cominciò a piovere, ma non acqua: era una sostanza acida che produceva le più terribili piaghe. Ma la Sacra Triade protesse Lomar, ricoprendolo con un velo sottile e resistente all’acido.
Il guerriero, intanto, proseguiva lungo la sua strada e niente sembrava poterlo fermare. Vide il maniero, poco lontano, dove era stato imprigionato il piccolo Fender.
Improvvisamente vide due coppie di frecce sbucare dal nulla. Roteavano avvicinandosi ad una velocità pazzesca, neppure lo scudo sarebbe stato in grado di fermarle.
Erano ormai a pochi metri. Lo stesso Lomar si impressionò, vedendo il proprio corpo che si apriva lasciando passare le quattro frecce e poi ricomporsi, come se nulla fosse accaduto.
“Quei Maghi non sanno più che cosa inventare.”, pensò.
Ormai era giunto ai piedi della costruzione. Prese la sua fedele spada ricurva che sprizzava scintille in tutte le direzioni. Poi tagliò quei muri, spessi alcuni metri, come fossero burro ed entrò all’interno.
“Lomar! Sia lodata la Triade. Che piacere rivederti!”, esclamò Fender.
“Forza, ragazzo, ce ne dobbiamo andare al più presto!”
Uscirono dal lugubre maniero. Ormai l’attenzione non era più rivolta su di loro. La Triade aveva lanciato un attacco diretto alla Città delle Nuvole e l’aria frizzava, attraversata da raggi magici di incredibile potenza.
Lomar e Fender tentarono di raggiungere il Ponte Arcobaleno, mentre tutto sembrava andare in pezzi.
La Città delle Nuvole stava crollando pietra su pietra, procedendo verso la totale disintegrazione.
Il guerriero scese lungo le spire del Ponte Arcobaleno, seguito dal veloce scattante Fender.
Finalmente il popolo di Dagobah vide il grandioso evento: una ciclopica esplosione diede il via ad una scrosciante ed insistente pioggia!
Le acque del fiume Leviathan stavano ritornando sulla nuda terra.
(4)
Un bellissimo daveron pezzato nitriva, legato all’asse di un carro.
Lomar ed i suoi amici si trovavano attorno al fuoco, assaggiano la calda zuppa che Hertha aveva preparato.
“Dove andrai?”, chiese Gezun.
“Non lo so ancora.”, rispose Lomar con un sorriso velato di tristezza.
“A proposito”, disse Fender, “io non ho ancora capito se le magie erano merito mio, oppure se siete stati voi!”
Tutti sorrisero.
“Non ti preoccupare”, intervenne Nils, “ti abbiamo soltanto aiutato un po’. Sei stato davvero bravissimo!”
“Hai un futuro da vero mago!”, disse Gezun.
“Beh, a dire il vero, sono stato proprio fortunato”, aggiunse Fender, “ho avuto come maestri la Triade in persona!”
“Le profezie si sono avverate”, disse Gezun, “la Triade è tornata a regnare su Dagobah…”
“Eppure”, continuò Hertha, “siamo ancora accanto al fuoco… nelle nostre spoglie mortali… per salutare un amico!”
“Davvero, non posso rimanere…”, disse Lomar.
“Lo sappiamo, ma siamo tristi lo stesso.”
Si salutarono.
Lomar montò in groppa al suo magnifico daveron, lanciando un ultimo saluto prima di correre via al galoppo.
Giunto dietro una collina, si fermò. Estrasse dalla bisaccia, gelosamente, l’Occhio divino…
Vide il volto del perfido Mago che gli aveva tolto quello che aveva di più caro al mondo…
Ora sapeva dove andare.